Fra le reminiscenze scolastiche, ricordo una pagina particolare del libro “La roba” di Giovanni Verga. Si tratta di un racconto il cui protagonista è un certo Mazzarò, che era riuscito a diventare proprietario di tanta “roba”, fino ad identificarsi con essa. Possedeva vigneti e poderi in quantità, uliveti e aranceti, pendici brulle e prati verdi, per il pascolo delle sue mandrie, tanto che, al dire del Verga, “Pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che tramontava, e le cicale che ronzavano, e gli uccelli che andavano a rannicchiarsi col volo breve dietro le zolle”. Tutta quella “roba”, scrive Verga, “se l’era fatta lui, colle sue mani e colla sua testa, col non dormire la notte, col prendere la febbre dal batticuore o dalla malaria, coll’affaticarsi dall’alba a sera, e andare in giro, sotto il sole e sotto la pioggia, col logorare i suoi stivali e le sue mule – egli solo non si logorava, pensando alla sua roba, ch’era tutto quello ch’ei avesse al mondo; perché non aveva né figli, né nipoti, né parenti; non aveva altro che la sua roba.
Quando uno è fatto così, continua il Verga, vuol dire che è fatto per la roba. Ed anche la roba era fatta per lui, che pareva ci avesse la calamita, perché la roba vuol stare con chi sa tenerla …”.
Mazzarò è avaro e, come tutti gli avari, non sa e non può godere della sua “roba”, in quanto lui non esiste, come essere umano, ma come “roba”; lui stesso è diventato “roba”, ossia, una cosa, un elemento costituito da tante cose, ma niente di umano.
Il suo avere è privo del dare. Pur avendo tutto, infatti, non dà niente, neppure a se stesso. Per questo, a mano, a mano che la vecchiaia si avvicina, dice il Verga, egli diventava sempre più disperato:
“Di una cosa sola gli doleva, che cominciasse a farsi vecchio, e la terra doveva lasciarla là dov’era. Questa è una ingiustizia di Dio, che dopo di essersi logorato la vita ad acquistare della roba, quando arrivate ad averla, che ne vorreste ancora, dovette lasciarla! E stava delle ore seduto sul corbello, col mento nelle mani, a guardare le sue vigne che gli verdeggiavano sotto gli occhi, e i campi che ondeggiavano di spighe come un mare, e gli oliveti che velavano la montagna come una nebbia, e se un ragazzo seminudo gli passava dinanzi, curvo sotto il peso come un osino stanco, gli lanciava il suo bastone fra le gambe, per invidia, e borbottava: - Guardate chi ha i giorni lunghi! Costui che non ha niente! – Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba per pensare all’anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, andava ammazzando a colpi di bastone le sue anatre e i suoi tacchini e strillava: Roba mia vientene con me”.
All’avaro manca l’equilibrio del dare e dell’avere. Non esiste la “partita doppia” nel suo pensiero, per questo non esiste la “Carità”, ossia l’Amore, che è essenzialmente uno scambio di beni, che possono essere materiali o spirituali, ma sempre beni sono: mentre si dà si riceve e mentre si riceve si dà. L’avaro, invece, ha il possesso della “roba”, un possesso tenuto stretto a tal punto da non dare niente a nessuno e quindi di non saper avere niente da nessuno, tanto meno dare a se stesso e avere per se stesso.
Diversa è la posizione di chi imposta la sua vita sulla “Carità”, sullo scambio del dare e dell’avere. Fanno riflettere le parole e l’esempio di Gesù Cristo. Egli presenta vari livelli di “Carità”, ma tutti hanno una caratteristica in comune: la reciprocità. Il dare e l’avere, la crescita insieme, lo scambio di beni devono procedere alla pari. “Ama il prossimo tuo come te stesso; fa’ agli altri quello che vorresti fosse fatto a te e quindi non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”. Vi è un dare e un avere in questo amore verso se stessi, che viene costituito come misura dell’amore verso gli altri. È chiaro che se non si dà amore a se stessi non è possibile averlo per poterlo dare agli altri.
Colui che è avido della “roba” sembra avere tutto, ma, poiché gli manca il dare, non ha neppure l’avere, ha soltanto il possesso delle cose, da cui, a sua volta, è posseduto. In tutto questo vi è come una espropriazione dell’interiorità personale, una negazione e una perdita di sé con la grave conseguenza di sentirsi nessuno.
Occorre avere una grande ricchezza interiore, per essere capaci di dare agli altri, soccorrendoli nelle loro necessità materiali, culturali, formative, spirituali. Gesù si arricchiva interiormente in ogni momento della sua giornata: si relazionava con il Padre e in quella relazione dava e riceveva Amore, donava ai gigli del campo, agli uccelli del cielo il suo sguardo intenso e la sua attenzione, insegnava alle folle, ammoniva gli scribi e i farisei; ha inviato Zaccheo a scendere dall’albero, perché aveva bisogno di parlarli, non ha condannato l’adultera, ha chiamato a sé i suoi discepoli ed è stato con loro, condividendo riflessioni ed azioni. Da tutto questo suo dare ricevere informazioni, apprendimenti, che egli continuamente elabora, che gli sono di grande utilità per la costruzione di una qualificata coerenza, coerenza al suo progetto che è anche quello del Padre, coerenza che lo porterà ad amare a livelli altissimi: “Non vi è amore più grande che dare la vita per gli amici”; “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno”; Questo è il mio Corpo, dato per voi”.
La sublime “Carità” di Cristo, il suo elevatissimo Amore, che vanno oltre ogni aspettativa e ogni attesa, sono completamente gratuiti. Si tratta di una dimensione di vita diametralmente opposta all’avarizia di Mazzarò.
Anche per Gesù, che viene in piena consapevolezza, i grandi gesti di Carità formano un ampio bagaglio per la conoscenza di sé, dello Spirito, di Dio Padre, conoscenza della grandezza e meschinità dell’animo umano e di ogni realtà. Vediamo che Gesù non condanna, ma recupera ogni elemento, ogni situazione, ogni persona. Gesù si fa, rispetto a se stesso, pura recettività, anche nel momento supremo della morte, e con la sua risurrezione, diventa VITA, pienezza di vita.
Nel mare dell’esperienza umana, la carità ossia l’amore, costituito da un dare e da un avere, che si sintonizzano tra loro, crea equilibrio interiore, che gradualmente, diventa anche per noi recettività. Quando il dare non ha confini, proprio in quel momento, l’avere arricchisce l’anima di beni immensurabili: conoscenza, consapevolezza, coerenza, comprensione, non condanna, libertà interiore, sguardo limpido, non possesso, ma disponibilità, condivisione e solidarietà.