La comprensione della difficoltà a perdonare è talmente immediata che non ha bisogno di dimostrazioni articolate.
Sì, perdonare è difficile, perché se c’è bisogno di perdonare vuol dire che prima c’è stata un’azione di ingiustizia.
Il mondo è pieno di ingiustizie che si manifestano in forme diverse: violenza, soprusi, strapoteri, sopraffazioni, tirannie, ipocrisie, ladrocini e truffe… . E nessuno si abitua mai a ricevere prepotenze o aggressività, tanto meno se provengono da persone dalle quali ci si aspetta comprensione, dialogo e una certa sintonia di sentimenti.
I tempi cambiano, cambiano anche le norme di vita, le relazioni umane, il modo di funzionare, ma le sofferenze che derivano da umiliazioni ingiuste più o meno palesi, sempre e comunque portatrici di pesantezze interiori difficili da elaborare e superare, mantengono invece lo stesso spessore.
La difficoltà del perdono risiede prima di tutto nelle nostre emozioni che aprono profonde ferite quando subiamo ingiustizie, scorrettezze o malignità.
Il dolore recato dalle ferite rende impossibile frenare l’ira, impedisce l’elaborazione immediata del torto subìto ed inibisce la capacità di offrire il perdono.
Più volte capita di sentire, anche attraverso i mass media, che a persone che hanno subìto rapine, sequestri, uccisione di una persona cara, venga chiesto se hanno perdonato ai responsabili delle ingiustizie commesse. La domanda rivela l’assenza di rispetto e l’assoluta mancanza di sensibilità verso una sofferenza che richiede tempo, energie e riflessione per essere superata.
Non è possibile, infatti, in una situazione di grande emotività, collocare immediatamente il perdono, elemento doloroso che necessità, per la sua acuta difficoltà, di un’azione di raccoglimento interiore faticosa e di una speciale elaborazione.
Il cammino verso il perdono è molto lento e procede a piccoli passi, perché non è assolutamente un elemento spontaneo e tanto meno istintivo. Anzi il primo impulso è sempre quello della vendetta, che lentamente dovrà essere trasformata.
Il primo lavoro da compiere è dentro di sé ed è costituito da quell’impegno a superare lentamente ma gradualmente il rancore, la rabbia, l’astio e forse anche l’odio.
Non permettere che l’acredine di queste emozioni si depositi nei propri sentimenti vuol dire innanzitutto perdonare a se stessi, espressione, quest’ultima, che non va ripetuta per arrivare all’autoconvincimento, ma che indica un interiore lavoro di qualità per ricavare da una realtà negativa un insegnamento utile alla propria stessa vita.
Attraverso questo impegno non indifferente e tutt’altro che facile e veloce, il risentimento lentamente diminuisce fino a scomparire, fino a renderci disponibili a compiere azioni di bene verso coloro che ci hanno fatto del male.
Questo è amore concreto e non costituito di parole soltanto.
È l’amore simile a quello di Gesù, quando sulla croce dice al Padre: “perdona loro, perché non sanno quello che fanno”.
Raggiunto, anche se in modo imperfetto, questo livello esistenziale, il cammino interiore esige un’altra attenzione, sempre su noi stessi. Esige grande vigilanza, perché il perdono non diventi una posizione di superiorità rispetto a chi ha sbagliato.
L’atteggiamento di superiorità non ha motivo di esistere, perché in piccole o grandi dosi tutti possiamo offendere, respingere o fare del male agli altri.
Non possiamo perdonare il comportamento di colui che si ritiene migliore degli altri proprio perché pensa di aver perdonato coloro che hanno procurato ingiustizie. Il perdono può costituire solo all’interno di un sostanziale atteggiamento di umiltà, non di superbia.
Togliere dal nostro cuore astio, diffidenza, malanimo, ira verso chiunque ci abbia fatto male, ci abbia profondamente feriti, significa accettare di potersi pensare come l’altro, non superiori a lui.
Consentire all’altro di potersi rispecchiare nel nostro nuovo atteggiamento depurato dai rancori, è concedere a se stessi e all’altro una nuova possibilità in cui il bene e il male, intersecandosi, hanno costruito qualcosa di nuovo e di utile per entrambe le esigenze.
Con questa “riconciliazione” con se stessi si offre all’altro la possibilità di stabilire nuove relazioni positive e di procedere verso il riavvicinamento, la pacificazione e l’armonia con chi è stato amareggiato.
Noi non possiamo cambiare gli altri, possiamo solo, e con fatica, cambiare noi stessi. È attraverso questo cambiamento-trasformazione che possiamo avvicinarci a qualsiasi “altro”, che saprà, forse, cogliere l’amore ri-conquistato nella libertà.
Se l’altro non desiderasse il riavvicinamento, tutto il lavoro interiore fatto non va comunque sprecato perché il riavvicinamento con se stessi è già avvenuto, e vano sarebbe governare anche tutto il mondo se non sapessimo governare noi stessi con i nostri tumultuosi sentimenti.